Dovevamo restare solo una sera, quella della festa, per capire meglio la situazione, guardare coi nostri occhi quello che sta accadendo, provare a dare una mano alla cucina. E invece siamo rientrati dopo 3 giorni, che hanno il sapore di un’eternità.
La frontiera è un mondo strano: è come un eterno presente fatto di flash che si succedono nelle lunghe giornate di sole. E poi il nuovo giorno inizia sempre due volte: la mattina l’alba porta il caldo e le difficoltà quotidiane della vita sugli scogli, e il tramonto, la sera, porta il cibo e l’aria fresca, quindi il vero inizio della vita sociale.
Oggi l’agitazione è ancora più alta del solito: i ragazzi vogliono capire cosa si sia deciso nel vertice europeo di venerdì. Fino a ieri hanno aspettato con l’obiettivo di avere risposte politiche, se oggi non le hanno ancora avute, ha ancora senso rimanere sugli scogli? Si decide di fare un’assemblea la sera, tutti insieme. Intanto, assieme al Presidio permanente Noborders e agli altri compagni e compagne presenti in questi giorni a Ventimiglia, ci riuniamo vicino alla cucina per condividere dubbi e proposte in vista dell’assemblea.
“Black or white, we are all together”. È lo slogan stampato sulle magliette stilosissime di un gruppo di ragazzi della periferia di Nizza, che aprono gli sportelli e scendono sorridenti dalle loro auto. Sono una crew di rapper e grafici: dicono che nel loro quartiere ci sono molti musulmani, ma in pochi si interessano ai nuovi arrivati. Per questo loro hanno pensato di mettere la loro creatività al servizio della causa, scrivendo una canzone sulla frontiera italo-francese e venendo qui a fare foto e video. Musica e immagini come strumenti di lotta… ma senza dimenticare coltello e forchetta! Assieme a casse audio e magliette, la crew estrae dalle vetture svariate confezioni di petti di pollo, che si mette a cucinare ai nostri fornelli
“Come with me, come with me” il sole è appena tramontato e Ibrahim ci chiama a raccolta sugli scogli. È un invito a cena: stasera mangiamo tutti insieme, “da loro”. Ci danno il benvenuto e ci offrono di tutto: riso e latte fatto insieme nella nostra cucina, cous-cous piccantissimo portato dall’Imam di Nizza, datteri, sardine e torte salate. Divisi in piccoli gruppi mangiamo con gesti semplici, e con una certa goffaggine, che ci rende molto buffi agli occhi di chi ha invece raggiunto una certa dimestichezza nel vivere sulle rocce. E’ una situazione surreale, ma allo stesso tempo, ci sentiamo nel solo posto possibile.
Di assemblee ne abbiamo viste e vissute tante negli ultimi anni. Non c’era mai capitato, però, di ritrovarci a notte fonda, su un prato spartitraffico della frontiera italo-francese, ad ascoltare domande, dubbi e interventi, che riguardano la lotta e la vita – nel loro senso più pieno e totale – di chi li sta pronunciando. Sono domande cui è impossibile rispondere e di fronte alle quali si rischia continuamente di ritrovarsi afoni, per cui lo sforzo maggiore e abituarsi a ritrovare il fiato, per non interrompere il contatto e far ripartire la relazione. “We are strong if you are here”, ci dicono. Con l’ennesima e paradossale giravolta, si scopre che senza la nostra presenza, scombussolata e balbuziente, anche quella dei migranti sugli scogli, così forte e determinata, perderebbe senso ai loro occhi. Ed è da qui che si apre quella crepa insanabile che si allarga ora dopo ora, caratterizzando sempre più la nostra presenza a Ventimiglia: una crepa in cui la totale impotenza e la massima importanza si riversano di continuo, senza essere più riconoscibili.
Verso l’una arriva una telefonata: ci sono 6 afghani in arrivo dal sentiero sul mare. Non mangiano da due giorni. Prepariamo un tappeto per terra sotto la pineta e ci mettiamo tutto il cibo rimasto, acqua e frutta, bicchieri, piatti e posate. Dopo 10 minuti emergono dal buio, sono spaesati e stanchissimi, si siedono e mangiano in silenzio.
Domenica ci attiviamo subito: bisogna fare l’inventario del cibo. Ci sono troppe cose, alcune stanno andando a male, bisogna capire cosa si ha, in che quantità e decidere che farne.
Gianni, compagno cinquantenne, contadino e rivoluzionario, torna dal gazebo della Croce Rossa. Fuma e si prende una pausa all’ombra. “Ci sono centinaia di scatolette di tonno, che cazzo se ne fanno di tutte queste scatolette! Ma vi sembra possibile? C’è solo del tonno, tonno dappertutto!”. A un certo punto trova un rasoio da donne in una borsa della spesa nella “nostra” tenda da campo: “Anna! Vieni, questo è per te e per i tuoi baffi!”.
I ragazzi afghani arrivati la sera prima non vogliono restare, preferiscono andare alla stazione e forse partire. Due di loro dicono che vanno solo a chiamare altri amici nel centro di accoglienza della stazione per portarli qui a resistere insieme a noi. Di fatto non li vedremo più.
Decidiamo con i ragazzi di fare un’altra assemblea dopo cena sugli scogli. Noi del presidio siamo in 7 o 8, loro saranno una cinquantina. Gli animi sono caldi, si parlano in arabo, capiamo che stanno aspettando uno di loro perché si deve chiarire qualcosa.
Nel frattempo arrivano in assemblea chiamati dagli altri anche 15 ragazzi pakistani appena arrivati dal sentiero sul mare. Esitano, alcuni di loro sono troppo stanchi e si mettono a dormire su coperte per terra sul marciapiede. Sono sfiniti. In 5 o 6 restano all’assemblea, uno di loro parla bene l’inglese e riferisce agli altri. Ma dopo una mezz’ora ci dice: “We have to go now. We want to pass the border. Thank you”. Chiediamo loro di aspettare giusto la fine dell’assemblea perché possiamo dar loro qualche informazione di base. Diciamo loro che possono passare la notte con noi, forse domani saranno più lucidi e riposati per decidere il da farsi. Alla fine decidono di restare, sono troppo stanchi per camminare ancora. Sono in viaggio da due mesi.
Nel frattempo gli altri in assemblea si sono calmati, siamo riusciti tutti insieme a smorzare alcune tensioni, a chiarire alcune incomprensioni. Qualcuno se ne va’. Proponiamo loro di fare un’assemblea ogni sera, perché tutti possano esprimere paure e preoccupazioni, per evitare che si covino risentimenti.
Gianni è in serata: mostra ad alcuni ragazzi la costa oltre Mentone: “Vedi, là c’è Monaco, sai il Gran Premio? Le macchine? Ecco, sono tutti ricchi. E noi da qui ci pisciamo sopra!”
Alle 6 e 30 siamo svegli già in molti. La polizia arriva con due camionette e un’auto che gira e rigira minacciosa intorno all’aiuola di traffico. Arrivano anche i soliti carabinieri che si piazzano dall’altro lato della strada, davanti al bar. Sgomberano il marciapiede da coperte e gazebi per ripulire con telecamere al seguito, nella più classica delle operazioni di facciata. Nel frattempo 11 dei ragazzi pakistani decidono di andare alla stazione col pullmann messo a disposizione dalla polizia che usa un mediatore per convincerli a lasciare il presidio. I ragazzi sono preoccupati. Sono convinti che sia meglio restare sugli scogli, e non tornare sul marciapiede almeno finché la polizia non se ne sarà andata. Passa un camion che trasporta uno yatch immenso, è diretto verso la Francia. Gianni ci sale sopra e ci saluta gridando “Questo è mio!”.
Fa sempre più caldo e noi dobbiamo partire.
Il sole sale e dall’ombra dei pini si aspetta che il giorno rinasca di nuovo.
Gastronomia precaria e clandestina – Rete Eat the Rich e Campi Aperti