A Ventimiglia il nuovo giorno sorge sempre due volte. La prima è la mattina quando si tratta di trovare informazioni, cercare di essere razionali, trovare il modo di far quadrare il cerchio. Dopo tre settimane di presidio i problemi rimangono e si amplificano. Non c’è Internet per verificare le voci più disparate e questo porta via un sacco di tempo. Nemmeno gli avvocati sono presenti sul luogo e sono poche anche le realtà di movimento che finora hanno partecipato al presidio. La polizia non rende facile la situazione: dopo aver fatto spostare la tenda dove si trovava il cibo (ora fissa sugli scogli) durante la mattina ha anche fatto liberare il marciapiede che corre lungo la scogliera. Il pensiero ritorna alle parole di un residente che pochi giorni giorni fa si lamentava del fatto che lo avevano privato della strada per andare a correre: «Poveri residenti», aveva commentato Anna con un certo sarcasmo.
Il problema è che con lo spostamento della tenda salta anche il punto di riferimento dato ai migranti, il luogo dove si erano svolte le assemblee, dove cucinare, dove conversare nelle ore del giorno. Tutto da rifare, insomma, e poco a poco di riproviamo.
Decidiamo di andare in stazione a visionare la situazione. La stazione di Ventimiglia è da giorni un luogo in cui non esistono né diritti né leggi. I migranti possono uscire, ma non possono allontanarsi dallo stabile. Tutto condito dalla presenza di un quantitativo di polizia immenso che impedisce l’accesso. Eppure per puro caso riusciamo a entrare. Ai migranti è riservata un’ala con cortile, zona letti e bagni chimici. La Croce Rossa presidia lo stabilee si occupa della salute fisica delle persone, ma di quella mentale nessuno si occupa: nel momento in cui entriamo siamo letteralmente assaliti da persone che ci chiedono qualunque cosa, cosa sta succedendo, quando finirà, dove saranno portati, condizioni legali: «mi hanno preso l’impronta di un solo dito, vuol dire che devo rimanere in Italia?». No, significa che ti hanno preso per il culo. L’accordo di Dublino obbliga i richiedenti asilo a rimanere nel luogo in cui sono state registrate le loro impronte, quindi al momento nessuno sta svolgendo questa operazione. Nessuno li vuole. Poco, male, forse, dato che sono loro stessi che se ne vogliono andare. Il tour dura più di due ore, non abbiamo fotografie del luogo ed è un errore: ancora una volta ci malediciamo per essere stati colti impreparati rispetto allo scenario.
Durante il giro in stazione qualcuno è rimasto sugli scogli. Tra le pietre si trova il modo per fissare il tavolo: tagliere fermo, coltello in mano e giù ad affettare. La mensa è ora sugli scogli e tra le pietre. Anche il pannello solare a cui si caricano i cellulari è stato spostato. «Che ricetta è?» chiedono alcuni, pasta con le zucchine. Nulla di complicato stasera, che si è lavorato già tanto.
Eppure qualcosa nell’aria sembra girare per il verso giusto: portiamo padelle e pentole in mezzo all’accampamento, ci sediamo e iniziamo a chiacchierare con tutti in tre lingue differenti durante una cena incredibilmente rilassata. E francamente ce la godiamo, come se fossimo a casa coi coinquilini e avessimo buttato un po’ di pasta in più, metti che qualcuno ne voleva.
Sarà la strana tranquillità, sarà la stanchezza, fatto sta che dopo tre giorni di incontri intensi e complessi, l’assemblea salta. Un errore, come capiremo più tardi, ma ancora non lo sappiamo. Non ci è ancora entrato in testa che a Ventimiglia il nuovo giorno sorge sempre due volte. Una di giorno, una di notte, dopo la preghiera del Ramadan e dopo la cena. I ragazzi si rianimano, si esce dagli scogli, si torna a parlare con una certa scioltezza, come se non ci fossero questioni aperte.
Appare una chitarra e qualcuno comincia a suonare qualcosa che possiamo cantare tutti. Il ritornello di No Woman No Cry diventa così “Ventimiglia is gonna be alright” e Bob Marley ci accompagna per qualche quarto d’ora, fino a quanto non si fa partire un blues semplicissimo. Si impone una regola: ciascuno deve inventare una strofa, come più gli piace. Una cretinata, sì. Per lo meno inizia così. Qualcuno fa solo dei mugugni, qualcuno non riesce a stare a tempo. Uno dei ragazzi fa un pezzo in arabo, mentre uno della vecchia guardia del presidio prendendosi in giro canta “Where’s my home? Sono sempre qui! È questa la mia casa ormai”. Una cretinata, sì, che però acquisisce spessore, man mano che si aggiungono le storie. E in più tra una strofa e l’altra un ritornello ce lo devi aggiungere. Ci ritroviamo così con un unico martellante ritornello cantato da bianchi e neri, le parole “We’re not coming back” diventano musica con cori e controcori che la roccia fa rimbombare. Ventimiglia Blues. E per un attimo siamo potentissimi.
Errore gravissimo.
«Thank you so much, but I have to try». No, aspetta, in che senso? Parte il primo, poi il secondo, poi… e i ragazzi che fino a cinque minuti fa stavano cantando con noi partono con lo zaino in spalla, non si sa per dove. E qui si fanno sentire le discussioni mancate, la disorganizzazione del presidio che in effetti anche sulla nostra tenuta mentale. Cosa possiamo dire? C’è qualcosa che possiamo consigliare? Ma non è più sicuro dirgli di non partire? Guerra, prigione in Libia, povertà, barcone in mezzo al Mediterraneo: non ci vuole molto a capire che il nostro concetto di pericolo è lontano anni luce dal loro. E mentre le ore notturne passano tra le partenze e le nostre discussioni sull’argomento assistiamo ad una seconda scena assurda: alcuni dei ragazzi che erano partiti, tornano e lo fanno con un sorriso che stona drasticamente col resto. La polizia francese controlla la frontiera, non si passa: «Non fa niente» ci dice un ragazzo che in faccia ha un sorriso che non ci saremmo mai aspettati, a testimonianza di quanto sia differente la nostra percezione da quella di chi è almeno due anni che dialoga con la morte.
E allora ci sale la rabbia, quella irrazionale, quella di chi sa di dover andare via e di non aver cambiato la situazione. E ti viene voglia di spaccarle quelle barriere e distruggere la frontiera: Convenzione di Ginevra, stato di diritto, Unione Europea, nulla di ciò esiste a Ventimiglia, dove si assiste ad una naturale sospensione di ogni diritto. Lo sappiamo noi, lo sanno i ragazzi da venti giorni sugli scogli, lo sanno tutti.
Il giorno dopo ripartiamo, ma la nostra testa e i nostri discorsi rimangono lì. Come un disco quando si incanta e non riesce a passare alla traccia successiva.
Gastronomia precaria e clandestina – Rete Eat the Rich e Campi Aperti