Come Rete Eat the Rich avevamo pensato di dedicare uno dei tavoli di lavoro della prima giornata del Festival delle Cucine Autogestite, il 7 maggio, alla questione del cibo all’interno delle istituzioni detentive, per provare insieme ad altr* a condividere le informazioni, sempre molto frammentarie, che si hanno in merito, riflettere sulle lotte che anche su questo terreno si sono mosse e pensarne altre ancora. Il 7 maggio è anche la data scelta per un corteo di opposizione alle frontiere, al confine Italia-Austria, dove il governo austriaco sta rafforzando il dispositivo di controllo e gestione della mobilità sul confine.Riterremmo contraddittorio e incompatibile lo svolgimento di quel tavolo quando, nello stesso momento, una delle lotte di cui avremmo voluto discutere ha un suo momento di esplicitazione: per questo il tavolo non avrà luogo nella forma che avevamo pensato.
Poniamo in calce a questo comunicato il testo da cui avremmo voluto muovere la discussione del 7, e invitiamo tutt* coloro che fossero interessat* a questi ragionamenti e convint* dell’utilità di avviare una discussione di questo tipo a incontrarci il giorno dopo a XM24.
Tavolo di discussione su profitto e controllo: il cibo nelle istituzioni totali
E’ ormai lampante che il cibo, la sua produzione e distribuzione, siano oggi tra i principali assi nella
manica dell’imbellettamento “buono, pulito e giusto” (cit.) che i grandi potentati economici e i loro
piccoli parenti stanno affannando a darsi negli ultimi anni. È altrettanto evidente come attraverso
questi processi agiscano nuove forme di controllo, di sfruttamento e di profitto.
Mangiare, si sa, è una necessità per chiunque e ciò ne fa un’occasione assai ghiotta per quegli attori
che decidano di approfittarne. Questi processi, ben consolidatisi in ogni ambito di vita, sono ancor
più espliciti nelle istituzioni detentive, entro i cui i confini già il potere è esercitato, a partire dalla
privazione della libertà, come una sequenza di forme di ricatto.
Nelle carceri come nei CIE, grande distribuzione e cooperative fanno affari d’oro con gli appalti per
la distribuzione e la gestione degli alimenti. E se il profitto è forse l’elemento più lampante su cui
costruire un ragionamento intorno al cibo nelle istituzioni totali, certamente non è l’unico.
Nella parabola del reinserimento sociale dei detenuti tramite il lavoro, per esempio, si può tracciare
un tentativo di domesticazione allo sfruttamento. allo stesso modo nel dispensare un condimento di psicofarmaci nei piatti dei prigionieri dei CIE si può intuire un esperimento di prevenzione rispetto a possibili rivolte.
Non ci sembra azzardato leggere in questi dispositivi delle linee guida e delle reciproche
contaminazioni tra Dentro e Fuori.
Sui litorali di Ventimiglia un’ordinanza del sindaco fa divieto di “sfamare i migranti”, pena multe
salatissime: lo si afferma fuori, lo si ribadisce dentro, che solo chi è complice può decidere di
graziare gli esclusi con un pasto.
Nei cie come nei neo-costituiti hotspot i pasti non sono che un altro strumento di ricatto, l’ennesimo
dispositivo di controllo per cui anche la fame deve essere disciplinata dagli orari e dalle regole
imposte dall’istituzione.
Per le strade delle città, negli uffici delle società che gestiscono l’alimentazione di carceri e cie, più
o meno loschi imprenditori del sociale annaspano nel tentativo di legittimare le loro complici
attività. E così si portano gli chef stellati a mettere in riga i detenuti, la produzione di cibi biologici
a civilizzare la realtà carceraria.
Consapevoli che questo piano di riflessione non è esaustivo, così come le informazioni di cui
disponiamo non possono da sole fornire il quadro della situazione nella sua complessità, riteniamo
importante proseguire il lavoro confrontandoci non solo sugli spunti di riflessione, ma anche su
esperienze e pratiche di lotta sperimentate in questi contesti. L’idea che sottende la discussione di
questo tavolo è da un lato una riflessione collettiva sull’uso che del cibo viene fatto come
dispositivo di controllo e sfruttamento, come terreno privilegiato del greenwashing sociale più
spregiudicato, dall’altro ripensando il cibo come strumento di lotta e resistenza.
Ragionando sul ruolo del cibo secondo queste linee, vorremmo riuscire a sistematizzare le
informazioni disponibili e a ragionare sulle pratiche già esistenti, discutendo collettivamente dei
percorsi possibili.