Giorno 4, #45Marzo
Sveglia prestissimo stamattina, che interrompe la pace e la tranquillità del nostro ambiente circostante, alle pendici della catena montuosa del Linas, tra la brezza delle prime ore del giorno. Le intenzioni sono buone: l’idea è di svegliarci alle 7 e di essere operativi per le 8.15, quando arriverà L. che ci porterà in giro per sentieri, poco segnati e di difficile accesso per chi non è della zona. Con L. ci sono anche A., M. e S. Ovviamente, complice la sbornia del giorno prima e la mala organizzazione che ci contraddistingue, non ci muoviamo prima delle 8.40. Attacchiamo una strada in salita, 3km con un dislivello di 700 mt; carichi come siamo di cibarie, acqua e mirto per due giorni, questo primo tratto ci fa decisamente vacillare. Il territorio porta ancora le tracce delle gallerie utilizzate dalle vecchie miniere. Il bosco di lecci prima e la macchia mediterranea poi sono i protagonisti di questa prima parte del percorso. Ma osservando attentamente grazie alle continue indicazioni delle nostre guide, scopriamo lentamente l’estrema ricchezza di queste terre, un’esplosione di colori e profumi.
Sotto il leccio, che ombreggia il sottobosco, resistono soprattutto il pungitopo e il ciclamino. Ma ci sono anche tantissimi altri esemplari che ci raccontano di una particolare relazione di queste comunità con il loro territorio: dal corbezzolo, usato soprattutto per la produzione di un miele amaro o come dolcificante, all’erica le cui radici venivano utilizzate per la costruzione delle pipe. E poi asparagi, asfodelo, elicriso, lavanda, ferula e l’euforbia (utilizzata contro le malattie della pelle, dalle vesciche ai tumori). Menzione particolare merita il lentisco, arbusto tipico della macchia mediterranea, il cui olio (regalatoci da A. e S. del comitato il giorno prima) ha delle proprietà curative incredibili: lo utilizzeremo noi stessi, continuamente e con successo, per le vesciche sotto i nostri piedi stanchi, per curare una dermatite atopica, e per alleviare le scottature.
La salita è dura, ed è quasi incomprensibile come per tutto il tempo Wolf, Cla e Perez riescano a tirarsi delle pezze giganti sul Comitato Invisibile e la politicizzazione del Signore degli Anelli. Si arriva in questo modo, e con tanto di avvistamenti d’aquila, a Gennaspina, da cui ammiriamo il paesaggio sottostante, quello stesso che alcuni vorrebbero coprire con l’immenso impianto termodinamico.
Da lì proseguiamo in costa e poi in leggera salita, e lungo questo sentiero camminiamo paralleli a un’incomprensibile recinzione di metallo e filo spinato che divide i comuni di Gonnosfanadiga e Villacidro; giungiamo così al passo Figus, sotto Punta Cammedda, a 1070 m sul livello del mare. Foto di gruppo e poi via per una discesa ardimentosa, con visibile crescita di vesciche, soprattutto sotto i piedi della Venciu. Qui ritroviamo le pernici e la cosiddetta “uva della volpe”, che nelle situazioni estreme è in grado di soddisfare le esigenze del viandante assetato; il paesaggio a poco a poco si trasforma di nuovo, e la macchia lascia di nuovo spazio al bosco, e a un ruscello meraviglioso che porta alla grande cascata Muru Mannu (la più alta della Sardegna, circa 40 m) dai colori indescrivibili: marrone, grigio e verde pastello si intervallano alle differenti gradazioni con cui l’acqua scrosciante incontra la luce del sole e bagna il granito. Per arrivarci, l’ultimo tratto prevede anche un pezzettino di corda, fissata decisamente male, che fa desistere alcun* di noi.
Tornati indietro di appena 100 metri, un grande bagno di gruppo in una pozza gelata, con tanto di lavaggio green con sciampo d’argilla, precede un pranzo coi fiocchi, a cui i nostri amici sardi contribuiscono con vino, mirto, pecorino e pane carasau. Prima di ripartire, la serenità della situazione e degli odori viene di colpo travolta da una zaffata di deodorante Macho, che il grande nemico di Farinetti sparge per l’ambiente circostante.
Dopo una pausa non troppo breve, ecco che si ricomincia il cammino attraverso il bosco. Nel tragitto incontriamo i resti in pietra dei villaggi dei carbonai. Ancora una volta la storia di questo territorio ci parla di devastazione e sfruttamento per la produzione di energia. Tutta la zona, come gran parte della Sardegna è stata, infatti, saccheggiata per la produzione di carbone. La ricrescita veloce del leccio legittimava la deforestazione boschiva. Ma di maggiore importanza, ieri come oggi, tutto questo accadeva ai danni della popolazione locale per opera delle concessioni che il Regno assegnava alle compagnie amiche.
Intorno alla questione mineraria, e a quella dei conflitti sulla terra, nella prima metà dell’Ottocento si verificarono eventi importantissimi nell’allora Regno di Sardegna. Prima, nel 1820, il cosiddetto “Editto delle chiudende” formalizzò l’accumulazione originaria terriera sull’isola: costituzione della proprietà privata attraverso la recinzione delle terre di uso comune. Poi, nel 1848, una legge, mentre confermava ai nuovi proprietari il possesso del suolo, conferiva al Regno l’esclusiva proprietà del sottosuolo e delle sue risorse, di cui quella mineraria era allora la più importante.
Dopo un paio d’ore di cammino, arriviamo finalmente a un’area attrezza nella comunità di Monte Mannu, nel territorio di Villacidro. Lì facciamo amicizia con P., il guardiano notturno, che ci presta una graticola, e dopo un rapido montaggio tende e recupero legna cuciniamo sul fuoco pane e formaggio scolandoci le ultime bottiglie di mirto.
E, cotti dalla stanchezza, passiamo le prime ore della a giocare a mezzo porco, di pessimo stile scout, che ci ha provocato odio e diffidenza reciproca, e per chi voglia sapere dettagli ci contatti personalmente.
Di seguito una bella poesia sarda di Melchiorre Murenu che descrive con parole infiammate il crimine dell’editto delle chiudende:
“Tancas serradas a muru
fattas a s’afferra afferra,
si su chelu fit in terra,
che l’aian serradu puru”
“Campi chiusi a muro,
fatti all’arraffa arraffa,
se il cielo fosse stato in terra,
avrebbero recintato pure quello”